«Ricordatevi della parola che vi ho detta: “Il servo non è più grande del suo signore”. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo ve lo faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato» (Gv.15:20-21)
Inizio queste brevi riflessioni con un’affermazione decisamente forte, che Gesù pronunciò per avvisare i suoi discepoli delle difficoltà alle quali sarebbero andati incontro nel loro compito di ambasciatori di Cristo. È l’affermazione che mi è quasi subito balzata alla mente dopo aver letto, su una bacheca in Rete, frasi che inneggiavano alla vita cristiana come ad un’esistenza in cui non vi è possibilità di sofferenza, costantemente vissuta nel miracoloso, con guarigioni, benedizioni senza fine, quasi che il nostro essere carnale dovesse già trovarsi in condizioni di sperimentare completamente la gloria divina, sicuri del «successo», sempre. Davanti ad asserzioni di questo genere, mi sono chiesto: se un credente che sta vivendo la persecuzione fisica – oggi – avesse modo di leggere simili proclami, cosa penserebbe?
Quale sarebbe l’opinione di quei cristiani che ogni giorno hanno da temere per la propria incolumità, per la propria dignità, fin negli aspetti più piccoli della loro vita? A volte, si fanno considerazioni senza guardarsi intorno, senza analizzare il vissuto degli altri: non è raro sentire, da parte di chi vive una «teologia del miracoloso, o della prosperità», frecciate del tipo: «se non vivi nel benessere, è perchè non hai abbastanza fede, oppure è perchè hai peccato». Sono frasi odiose, in primis perchè mettono chi le pronuncia sullo scranno del giudice (quando il giudizio spetta ad Uno solo, cioè Dio), e poi perchè dimostrano la scarsa conoscenza che tali persone hanno di Colui che dicono di conoscere.
In qualche modo, ricordano i molesti amici di Giobbe, il patriarca che – nonostante la sua integrità – si trovò prima a perdere ogni suo possedimento, per poi sperimentare la malattia al punto da desiderare la morte. Non fu la sua ribellione a Dio ad essere causa delle sue disgrazie – abbiamo infatti detto che era un individuo di invidiabile rettitudine – e certo non mancava di fede, che ad esempio dimostrava intercedendo ogni giorno per i suoi figli, nel caso essi si fossero resi colpevoli di qualche peccato. Tuttavia, egli si trovò a patire di una sorta di contesa celeste: il nemico di Dio, infatti, lo accusò davanti a Dio stesso di essere un opportunista, ossia di vivere nel timore dell’Eterno soltanto a motivo delle sue ricchezze e dell’assenza di sciagure. Così Giobbe fu messo alla prova, e nel corso del libro che porta il suo nome, possiamo assistere al percorso di un uomo che non si spiega il perchè del male che si abbatte su di lui, vive un’esperienza drammatica, e – alla fine – giunge ad una conoscenza di Dio più elevata, ottenendo tra l’altro di essere completamente ristabilito.
In questo percorso, Giobbe è accompagnato da diversi amici, che si recano a trovarlo a causa della sua condizione: il loro intento era dei più nobili, ed erano fermamente convinti di poter aiutare il loro caro a recuperare la comunione con Dio, che essi ritenevano perduta per qualche peccato. Tuttavia, essi parlavano per supposizioni, e – benchè parte dei loro discorsi fosse dottrinalmente corretto – non potevano essere sicuri che Giobbe fosse davvero colpevole di qualche misfatto. Al tempo stesso dimostravano una conoscenza distorta di Dio, dipingendolo come un giudice che non accetta appello, e che è pronto a castigare con estrema durezza ogni minima incertezza, senza pietà di un uomo come Giobbe, costretto a sedersi nella cenere ed a grattarsi con i cocci, per lenire il dolore causato dal male che lo aveva colpito.
Oggi esistono situazioni analoghe: famiglie che soffrono, uomini e donne che subiscono soprusi, che perdono la vita perchè non hanno timore di proclamare il nome di Gesù come Signore. Si tratta di individui che accettano di buon grado le sofferenze, nonostante ne abbiano terrore, perchè si fanno forza delle parole di Cristo, che predisse tali persecuzioni, spiegando come esse avrebbero contraddistinto i suoi seguaci. Vi sono paesi africani in cui i cristiani sono rinchiusi nei container, sotto il sole, con temperature folli e condizioni igieniche pessime. In alcune nazioni orientali, nella migliore delle ipotesi, i credenti scoperti sono destinati ai campi di concentramento. In altri paesi ancora, il solo fatto di dichiararsi cristiani causa di fatto la perdita dei diritti fondamentali dell’uomo. Chi ha il coraggio (o la stupidità) di affermare che tali persone soffrono perchè mancanti di fede? Anzi, è proprio in quelle zone che la chiesa cresce più forte, più sana.
L’uomo ha il brutto vizio di essere estremamente «settorializzato», di non saper guardare al di là del suo ristretto vissuto. Così, se oggi in occidente la persecuzione è limitata ad espressioni di carattere sociale minore (come il sentirsi insultare quando si cerca di porgere un volantino a qualcuno durante una campagna di evangelizzazione), non riusciamo a concepire del tutto che la stessa azione, da un’altra parte del mondo, ci avrebbe causato conseguenze ben più pesanti. Non intendo dire che la vita cristiana debba essere esclusivamente caratterizzata dalla sofferenza, ci mancherebbe altro! D’altronde le Scritture mi smentirebbero, perchè una vita dedicata a Dio è una vita che ne sperimenta le benedizioni, a livelli differenti. Tuttavia, è nostra responsabilità tenere conto del fatto che Dio è sovrano sugli eventi, e che non necessariamente il «successo» deve caratterizzare l’esistenza del credente: egli infatti è destinatario di una vittoria più grande di quelle materiali – le quali non sono affatto garantite -, una vittoria diversa da ciò che la nostra società intende con il concetto di «riuscita».
Il metro di misura della fede di una persona non sono le ricadute che questa può avere, ma sono rappresentate dall’obbedienza del singolo. È qualcosa che ricorda da vicino l’atteggiamento dei tre amici del profeta Daniele, i quali, davanti alla prospettiva di essere gettati nella fornace ardente, dissero al re Nabucodonosor: «Il nostro Dio, che noi serviamo, ha il potere di salvarci e ci libererà dal fuoco della fornace ardente e dalla tua mano, o re. Anche se questo non accadesse, sappi, o re, che comunque noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai fatto erigere» (Da.3:17-18)
La risposta di Dio può essere come ce la attendiamo, oppure no: i tre erano pronti a morire, ammettendo che non era necessario per loro conoscere il motivo per il quale Dio non sarebbe intervenuto, quanto piuttosto era vitale rimanerGli fedeli, sicuri – comunque – che Egli avrebbe vegliato sulle loro vite. In nessuna parte delle Scritture abbiamo la garanzia che alla fede debba corrispondere una strada in discesa, facile e priva di intoppi, ma tutta la Bibbia ci parla invece di come – anche nel cammino più accidentato – possiamo confidare in Dio e nelle sue promesse eterne.
http://www.solovangelo.it/2011/07/27/i-moderni-amici-di-giobbe/
Inizio queste brevi riflessioni con un’affermazione decisamente forte, che Gesù pronunciò per avvisare i suoi discepoli delle difficoltà alle quali sarebbero andati incontro nel loro compito di ambasciatori di Cristo. È l’affermazione che mi è quasi subito balzata alla mente dopo aver letto, su una bacheca in Rete, frasi che inneggiavano alla vita cristiana come ad un’esistenza in cui non vi è possibilità di sofferenza, costantemente vissuta nel miracoloso, con guarigioni, benedizioni senza fine, quasi che il nostro essere carnale dovesse già trovarsi in condizioni di sperimentare completamente la gloria divina, sicuri del «successo», sempre. Davanti ad asserzioni di questo genere, mi sono chiesto: se un credente che sta vivendo la persecuzione fisica – oggi – avesse modo di leggere simili proclami, cosa penserebbe?
Quale sarebbe l’opinione di quei cristiani che ogni giorno hanno da temere per la propria incolumità, per la propria dignità, fin negli aspetti più piccoli della loro vita? A volte, si fanno considerazioni senza guardarsi intorno, senza analizzare il vissuto degli altri: non è raro sentire, da parte di chi vive una «teologia del miracoloso, o della prosperità», frecciate del tipo: «se non vivi nel benessere, è perchè non hai abbastanza fede, oppure è perchè hai peccato». Sono frasi odiose, in primis perchè mettono chi le pronuncia sullo scranno del giudice (quando il giudizio spetta ad Uno solo, cioè Dio), e poi perchè dimostrano la scarsa conoscenza che tali persone hanno di Colui che dicono di conoscere.
In qualche modo, ricordano i molesti amici di Giobbe, il patriarca che – nonostante la sua integrità – si trovò prima a perdere ogni suo possedimento, per poi sperimentare la malattia al punto da desiderare la morte. Non fu la sua ribellione a Dio ad essere causa delle sue disgrazie – abbiamo infatti detto che era un individuo di invidiabile rettitudine – e certo non mancava di fede, che ad esempio dimostrava intercedendo ogni giorno per i suoi figli, nel caso essi si fossero resi colpevoli di qualche peccato. Tuttavia, egli si trovò a patire di una sorta di contesa celeste: il nemico di Dio, infatti, lo accusò davanti a Dio stesso di essere un opportunista, ossia di vivere nel timore dell’Eterno soltanto a motivo delle sue ricchezze e dell’assenza di sciagure. Così Giobbe fu messo alla prova, e nel corso del libro che porta il suo nome, possiamo assistere al percorso di un uomo che non si spiega il perchè del male che si abbatte su di lui, vive un’esperienza drammatica, e – alla fine – giunge ad una conoscenza di Dio più elevata, ottenendo tra l’altro di essere completamente ristabilito.
In questo percorso, Giobbe è accompagnato da diversi amici, che si recano a trovarlo a causa della sua condizione: il loro intento era dei più nobili, ed erano fermamente convinti di poter aiutare il loro caro a recuperare la comunione con Dio, che essi ritenevano perduta per qualche peccato. Tuttavia, essi parlavano per supposizioni, e – benchè parte dei loro discorsi fosse dottrinalmente corretto – non potevano essere sicuri che Giobbe fosse davvero colpevole di qualche misfatto. Al tempo stesso dimostravano una conoscenza distorta di Dio, dipingendolo come un giudice che non accetta appello, e che è pronto a castigare con estrema durezza ogni minima incertezza, senza pietà di un uomo come Giobbe, costretto a sedersi nella cenere ed a grattarsi con i cocci, per lenire il dolore causato dal male che lo aveva colpito.
Oggi esistono situazioni analoghe: famiglie che soffrono, uomini e donne che subiscono soprusi, che perdono la vita perchè non hanno timore di proclamare il nome di Gesù come Signore. Si tratta di individui che accettano di buon grado le sofferenze, nonostante ne abbiano terrore, perchè si fanno forza delle parole di Cristo, che predisse tali persecuzioni, spiegando come esse avrebbero contraddistinto i suoi seguaci. Vi sono paesi africani in cui i cristiani sono rinchiusi nei container, sotto il sole, con temperature folli e condizioni igieniche pessime. In alcune nazioni orientali, nella migliore delle ipotesi, i credenti scoperti sono destinati ai campi di concentramento. In altri paesi ancora, il solo fatto di dichiararsi cristiani causa di fatto la perdita dei diritti fondamentali dell’uomo. Chi ha il coraggio (o la stupidità) di affermare che tali persone soffrono perchè mancanti di fede? Anzi, è proprio in quelle zone che la chiesa cresce più forte, più sana.
L’uomo ha il brutto vizio di essere estremamente «settorializzato», di non saper guardare al di là del suo ristretto vissuto. Così, se oggi in occidente la persecuzione è limitata ad espressioni di carattere sociale minore (come il sentirsi insultare quando si cerca di porgere un volantino a qualcuno durante una campagna di evangelizzazione), non riusciamo a concepire del tutto che la stessa azione, da un’altra parte del mondo, ci avrebbe causato conseguenze ben più pesanti. Non intendo dire che la vita cristiana debba essere esclusivamente caratterizzata dalla sofferenza, ci mancherebbe altro! D’altronde le Scritture mi smentirebbero, perchè una vita dedicata a Dio è una vita che ne sperimenta le benedizioni, a livelli differenti. Tuttavia, è nostra responsabilità tenere conto del fatto che Dio è sovrano sugli eventi, e che non necessariamente il «successo» deve caratterizzare l’esistenza del credente: egli infatti è destinatario di una vittoria più grande di quelle materiali – le quali non sono affatto garantite -, una vittoria diversa da ciò che la nostra società intende con il concetto di «riuscita».
Il metro di misura della fede di una persona non sono le ricadute che questa può avere, ma sono rappresentate dall’obbedienza del singolo. È qualcosa che ricorda da vicino l’atteggiamento dei tre amici del profeta Daniele, i quali, davanti alla prospettiva di essere gettati nella fornace ardente, dissero al re Nabucodonosor: «Il nostro Dio, che noi serviamo, ha il potere di salvarci e ci libererà dal fuoco della fornace ardente e dalla tua mano, o re. Anche se questo non accadesse, sappi, o re, che comunque noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai fatto erigere» (Da.3:17-18)
La risposta di Dio può essere come ce la attendiamo, oppure no: i tre erano pronti a morire, ammettendo che non era necessario per loro conoscere il motivo per il quale Dio non sarebbe intervenuto, quanto piuttosto era vitale rimanerGli fedeli, sicuri – comunque – che Egli avrebbe vegliato sulle loro vite. In nessuna parte delle Scritture abbiamo la garanzia che alla fede debba corrispondere una strada in discesa, facile e priva di intoppi, ma tutta la Bibbia ci parla invece di come – anche nel cammino più accidentato – possiamo confidare in Dio e nelle sue promesse eterne.
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