Non
c'è da stupirsi se le persone riflessive trovano che l'Evangelo di Gesù
Cristo sia difficile da credersi, perché la realtà di cui si occupa va
al di là della comprensione umana. Ma è triste il fatto che tanti
rendono la fede ancor più ardua di quanto sia in realtà, trovando delle
difficoltà nei punti sbagliati.
Prendiamo
l'espiazione ad esempio. Molti hanno problemi a riguardo. Come si fa a
credere, essi chiedono, che la morte di Gesù di Nazaret - un uomo solo,
che spirò su una forca romana - fece piazza pulita dei peccati di tanti?
Come può quella morte avere una valenza oggi per il perdono di Dio dei
nostri peccati?
Oppure,
prendiamo la risurrezione, che pare essere un vera pietra d'inciampo
per molti. Come si può credere, essi domandano, che Gesù risuscitò
fisicamente dai morti? D'accordo, è difficile negare che la tomba fosse
vuota - ma non è ancor più difficile credere che Gesù ne uscì con una
vita corporale eterna? Non è più facile dar credito a teorie tipo un
temporaneo ritorno alla vita dopo una perdita di sensi o il trafugamento
del corpo, anziché alla dottrina cristiana della risurrezione?
O
ancora, prendiamo la nascita verginale, che fra i protestanti di questo
secolo è stata ampiamente negata, la gente chiede come si fa a credere a
una simile anomalia biologica.
Oppure
prendiamo i miracoli riportati negli Evangeli; sono in molti a trovare
delle difficoltà in questo aspetto. Ammesso, dicono, che Gesù abbia
operato delle guarigioni (di fronte all'evidenza dei fatti è difficile
dubitarne, e in ogni modo la storia ha conosciuto altri guaritori), come
si può però credere che Egli abbia camminato sull'acqua, o dato da
mangiare a cinquemila persone, o risuscitato dei morti? Storie del
genere sono certamente a dir poco incredibili. A causa di questi e altri
simili problemi, molte menti ai margini della fede si sentono oggi
profondamente perplesse.
DIO INCARNATO
In realtà, la vera difficoltà, il mistero supremo che l'Evangelo ci presenta, non si trova affatto in queste cose accennate sopra. Risiede, non nel messaggio di espiazione del tradizionale "venerdì santo" né nel messaggio di risurrezione del giorno di Pasqua, ma piuttosto nel messaggio natalizio dell'incarnazione. La dichiarazione cristiana veramente sconvolgente è che Gesù di Nazareth era Dio fattosi uomo — che la seconda persona della Divinità divenne "il secondo uomo" (I Corinzi 15:47), determinando il destino umano, il secondo capostipite rappresentativo della razza, e che Egli rivestì l'umanità senza perdere la deità, così che Gesù di Nazareth era veramente e completamente divino nella stessa misura in cui era umano.
Ecco
due misteri in uno: la pluralità delle persone all'interno dell'unità
di Dio, e l'unione della divinità e dell'umanità nella persona di Gesù. È
qui, in ciò che avvenne in quel primo Natale, che risiedono le
profondità più abissali e insondabili della rivelazione cristiana.
"E
la Parola divenne carne" (Giovanni 1:14); Dio divenne uomo; il Figlio
di Dio diventò un ebreo; l'Onnipotente apparve sulla terra sotto le
spoglie di un bimbo umano indifeso, incapace di fare altro che stare
coricato, sgranare gli occhi, agitarsi e far sentire la propria voce; un
neonato bisognoso di essere nutrito, cambiato, ammaestrato come un
qualsiasi altro bambino. E in questo non c'erano né illusione né
inganno: l'infanzia del Figlio di Dio fu una realtà. Più ci si pensa,
più la cosa diventa sconvolgente.
Ecco
la vera "pietra d'inciampo" del Cristianesimo. È qui che hanno fallito
ebrei, musulmani, unitariani (o anti-trinitariani), testimoni di Geova, e
molti di coloro che provano le difficoltà succitate (vale a dire, la
nascita verginale, i miracoli, l'espiazione e la risurrezione). È dalla
miscredenza o da una fede come minimo inadeguata intorno all'
incarnazione che di solito sorgono difficoltà anche su altri punti del
racconto evangelico.
Ma
una volta che l'incarnazione è capita come una realtà, queste altre
difficoltà scompaiono. Se Gesù non fosse stato altro che un uomo fuori
del comune e particolarmente pio, la difficoltà a credere in ciò che il
Nuovo Testamento ci dice della Sua vita incredibile e delle Sue opere
straordinarie sarebbe davvero enorme.
Ma
se Gesù era effettivamente la Parola eterna, l'agente del Padre nella
creazione, "mediante il quale ha pure creato l'universo" (Ebrei 1:2),
non c'è da stupirsi se nuovi atti di potenza creativa contrassegnarono
la Sua venuta su questa terra, la Sua vita su di essa, e la Sua uscita
da essa. Non è cosa strana che Egli, l'autore della vita, risorgesse dai
morti. Se Gesù era effettivamente Dio Figlio, è ben più sorprendente il
fatto che Egli dovesse morire, piuttosto che risuscitare. E' un vero
mistero! L'immortale muore...
E
se l'immortale Figlio di Dio accettò davvero di gustare la morte, non è
strano che tale morte avesse un significato di salvezza per una razza
destinata alla perdizione. Una volta ammessa la divinità di Gesù,
diventa irragionevole trovare difficoltà in una di queste cose; c'è una
coerenza completa, tutto combacia perfettamente. L'incarnazione è di per
sé un mistero insondabile, ma dà un senso a tutto il resto che è
contenuto nel Nuovo Testamento.
CHI È QUESTO BAMBINO?
Gli
Evangeli di Matteo e Luca ci dicono abbastanza dettagliatamente come il
Figlio di Dio venne in questo mondo. Egli nacque fuori da alberghi in
un oscuro paesino della Giudea nei giorni gloriosi dell'Impero Romano.
Di solito la storia riceve qualche abbellimento quando la si racconta a
Natale; in realtà, è piuttosto terribile e crudele. Il motivo per cui
Gesù nacque fuori dell'albergo è che esso era pieno, e nessuno era
disposto a offrire un letto a una donna partoriente; così, Maria fu
costretta a far nascere il bambino in una stalla e a deporlo in una
mangiatoia. La storia è narrata spassionatamente e senza commenti, ma
nessun lettore attento può fare a meno di rabbrividire di fronte alla
descrizione d'insensibilità e di degradazione che essa tratteggia.
Tuttavia,
gli Evangelisti non riferiscono il racconto per trarne degli
insegnamenti morali. Per loro, il punto centrale di questa storia non
consiste nelle circostanze della nascita (se si eccettua il fatto che,
essendo avvenuta a Betleem, essa adempì la profezia, vedi Matteo 2:1-6),
ma è piuttosto nell'identità del neonato.
A
questo riguardo, il Nuovo Testamento ci comunica due pensieri. Li
abbiamo già accennati, ora esaminiamoli più dettagliatamente.
1. Il bimbo nato a Betleem era Dio
Più
precisamente, per usare il linguaggio biblico, Egli era il Figlio di
Dio, o, come regolarmente ne parla la teologia cristiana, Dio Figlio. Il
Figlio, si noti, non un Figlio: Giovanni, per accertarsi che i suoi
lettori capiscano l'unicità di Gesù, afferma per ben quattro volte nei
primi tre capitoli del suo Evangelo che Egli era l'unigenito o l'unico
Figlio di Dio (vedi Giovanni 1:14,18; 3:16,18). Di conseguenza, la
Chiesa cristiana fa questa confessione: "Credo in Dio Padre... e in Gesù
Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore".
Un
momento, l'affermazione che Gesù è il Figlio di Dio significa forse che
in realtà vi sono due dèi? Il Cristianesimo è dunque politeistico, come
sostengono ebrei e maomettani? O forse l'espressione "Figlio di Dio"
implica che Gesù, benché in una categoria tutta Sua fra gli esseri
creati, non fosse personalmente divino nello stesso senso del Padre?
Nella chiesa primitiva, gli ariani erano di questo ultimo avviso; ai
giorni nostri, gli unitariani, i Testimoni di Geova e altri ancora sono
sulla stessa linea. Ma è giusto? Che cosa intende dire veramente la
Bibbia quando chiama Gesù il Figlio di Dio?
Queste
domande hanno suscitato delle perplessità in alcuni, ma il Nuovo
Testamento non ci lascia nel dubbio per quanto riguarda le risposte da
dare. A livello di principio, queste domande furono tutte poste e
risolte dall'apostolo Giovanni nel prologo del suo Evangelo. Egli
scriveva, a quanto pare, per lettori di estrazione tanto ebraica quanto
greca. E Giovanni ci dice che "queste cose sono state scritte, affinché
crediate che Gesù è il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate vita
nel suo nome" (Giovanni 20:31). Per tutto l'Evangelo, l'apostolo
presenta Gesù come Figlio di Dio.
Tuttavia,
Giovanni sapeva che l'espressione "Figlio di Dio" era danneggiata da
associazioni fuorvianti nella mente dei suoi lettori. La teologia
ebraica l'adoperava come appellativo per l'atteso Messia (umano). La
mitologia greca parlava di molti "figli di dèi", ovvero super-uomini
nati dall'unione fra un dio e una donna. In nessuno dei due casi
l'espressione comunicava l'idea di deità personale; anzi, la escludevano
entrambi. Giovanni voleva essere certo che, quando scriveva di Gesù
come Figlio di Dio, non sarebbe stato capito (o mal capito) in questi
due sensi, e voleva che fosse chiaro fin dall'inizio che la condizione
di Figlio che Gesù reclamava, e che i cristiani gli attribuivano, era
proprio una questione di deità personale e nulla di meno.
Osserviamo
quanto accurata e convincente sia la spiegazione di questo tema da
parte di Giovanni. Nelle prime frasi del suo Vangelo egli non usa il
termine "Figlio", ma parla innanzi tutto di “Parola”. Non c'era pericolo
che nascessero dei malintesi; i lettori dell'Antico Testamento
avrebbero colto subito il riferimento. La Parola di Dio nell'Antico
Testamento è la Sua espressione creativa, la Sua potenza in azione, che
adempie il Suo disegno. L'Antico Testamento descriveva la Parola di Dio,
cioè l'effettiva dichiarazione del Suo proposito, come avente potenza
in sé stessa per realizzare la cosa determinata. Genesi 1 ci dice come
all'atto della creazione Dio disse: "Sia... e... fu" (Genesi 1:3). "I cieli furono fatti dalla parola del Signore... Egli parlò, e la cosa fu" (Salmo 33:6,9). La Parola di Dio è dunque Dio all'opera.
Giovanni riprende questa figura e procede dicendoci sette cose intorno alla Parola divina.
- "Nel principio era la Parola" (v. 1). Ecco l'eternità della Parola. Non ebbe un inizio; quando altre cose ebbero inizio, la Parola era.
- "La Parola era con Dio" (v. 1). Ecco la personalità della Parola. La potenza che adempie i disegni di Dio è la potenza di un essere personale distinto, che sta in un eterno rapporto di attiva comunione con Dio (questo è il significato della frase).
- "E la Parola era Dio" (v. 1). Qui abbiamo la deità della Parola. Benché distinta personalmente dal Padre, la Parola non è una creatura; è di per Sé divina, come il Padre è divino. Il mistero che questo versetto ci pone davanti è dunque il mistero delle distinzioni personali all'interno dell'unità della Divinità.
- "Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei" (v. 3). Qui la Parola crea, in quanto agente del Padre in ogni atto creativo operato dal Padre. Tutto ciò che fu creato, fu creato per mezzo di lei. (Ecco, a proposito, un'ulteriore prova che la Parola creatrice non appartiene alla categoria delle cose create, come non vi appartiene il Padre).
- "In lei era la vita" (v. 4). Ecco la Parola che dà vita. Non c'è vita fisica nel regno delle cose create, se non in, e tramite, lei. Abbiamo qui la risposta biblica al problema dell'origine e della continuità della vita, in tutte le sue forme: la vita è data e mantenuta dalla Parola. Le cose create non hanno vita in sé stesse, ma hanno vita nella Parola, la seconda persona della Divinità.
- "E la vita era la luce degli uomini" (v. 4). Qui abbiamo la Parola che rivela. Nel dare la vita, essa dà anche la luce; cioè, ogni essere umano riceve delle indicazioni di Dio dal fatto stesso di essere vivo nel mondo di Dio, e ciò, oltre al fatto di essere vivo, è dovuto all'opera della Parola
- "E la Parola è diventata carne" (v. 14). Qui la Parola è incarnata. Il neonato nella mangiatoia di Betleem era l'eterna Parola di Dio.
E
ora, dopo averci mostrato chi e che cosa è la Parola (cioè, una Persona
divina, autrice di tutte le cose), Giovanni ne dà un'identificazione.
La Parola, egli dice, fu rivelata attraverso l'incarnazione come Figlio
di Dio. "E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre" (v. 14). L'identificazione è confermata dal v. 18: "L'unigenito Figliuolo, che è nel seno del Padre..."
(Versione Riveduta). Così, Giovanni stabilisce il punto a cui mirava
fin dall'inizio: ora ha reso ben chiaro ciò che vuol dire chiamare Gesù
il Figlio di Dio. Il Figlio di Dio è la Parola di Dio; noi intendiamo
che cosa sia la Parola; bene, ecco che cos'è il Figlio. Questo è il
messaggio del Prologo.
Perciò,
quando la Bibbia proclama Gesù come Figlio di Dio, l'affermazione è
intesa come un'asserzione della Sua distinta, personale deità. Il
messaggio del Natale poggia sul fatto sconvolgente che il bambino nella
mangiatoia era Dio. Ma questa non è che la metà della storia.
2. Il bimbo nato a Betleem era Dio fatto uomo
La
Parola era diventata carne: un vero bimbo umano. Egli non aveva cessato
di essere Dio; non era meno Dio di quanto lo fosse prima; ma aveva
cominciato a essere uomo.
Egli
ora non era Dio meno alcuni elementi della Sua deità, bensì Dio più
tutto ciò che aveva fatto proprio, rivestendosi dell'umanità. Colui che
aveva creato l'uomo imparava adesso che cosa si prova a essere uomini.
Colui che aveva creato l'angelo che poi divenne il diavolo, si trovava
ora nella condizione — inevitabile — di essere tentato dal diavolo; e la
perfezione della Sua vita umana fu raggiunta soltanto mediante il
conflitto con il diavolo. La Lettera agli Ebrei, guardando a Lui nella
Sua gloria dopo l'ascensione, trae grande consolazione da questo fatto. "Egli
doveva diventare simile ai suoi fratelli in ogni cosa... Infatti,
poiché egli stesso ha sofferto la tentazione, può venire in aiuto di
quelli che sono nella prova... Infatti non abbiamo un sommo sacerdote
che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli
stesso è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per
ottenere misericordia e trovar grazia e così essere soccorsi al momento
opportuno" (Ebrei 2:17 e seguenti; 4:15 e seguenti).
Il
mistero dell'incarnazione è insondabile. Non possiamo spiegarlo;
possiamo soltanto formularlo. E forse non è mai stato espresso tanto
bene quanto nelle parole del Credo Atanasiano: "Il nostro Signore Gesù
Cristo, il Figlio di Dio, è ugualmente Dio e uomo... perfettamente Dio e
perfettamente uomo... Benché egli sia Dio e anche uomo, è un Cristo
solo, non due. Egli è uno, tuttavia, non per mezzo di una conversione in
carne della sua deità, ma piuttosto attraverso l'assunzione della sua
forma umana". La nostra mente non può andare oltre. Quel che vediamo
nella mangiatoia è, per usare le parole di C. Wesley: Our God contracted
to a span; incomprehensibly made man (Il nostro Dio ridotto a una
spanna, incomprensibilmente fatto uomo).
"Incomprehensibly", cioè, incomprensibilmente: faremo bene a ricordarci di questo, evitando speculazioni e adorando con gioia.
NATO PER MORIRE
Che
cosa pensare dell'incarnazione? Il Nuovo Testamento c'incoraggia ad
adorare Dio per l'amore dimostrato nel farsi uomo. Questo fu infatti un
grande atto di condiscenden-za e auto-umiliazione. "Colui che per natura
era sempre stato Dio", scrive Paolo, "non si aggrappò alle Sue
prerogative di essere uguale a Dio, ma si spogliò di tutti i Suoi
privilegi, acconsentendo a essere schiavo per natura e nascendo come un
comune mortale. E, diventato uomo, umiliò Sé stesso vivendo in assoluta
obbedienza, fino alla morte e alla morte di croce come un criminale"
(Filippesi 2:6 e seguenti - parafrasi). E tutto questo, per la nostra
salvezza.
Il
significato cruciale della culla di Betleem risiede nella sua
collocazione all'interno delle tappe che condussero il Figlio di Dio
alla croce sul Calvario, e non riusciremo a capirlo finché non lo
considereremo in questo contesto. Il testo chiave nel Nuovo Testamento
per interpretare l'incarnazione non è, quindi, la semplice affermazione
contenuta in Giovanni 1:14 "La Parola è diventata carne e ha abitato per
un tempo tra di noi", ma è piuttosto l'asserzione più esauriente di II
Corinzi 8:9 "Infatti voi conoscete la grazia del nostro Signore Gesù
Cristo il quale, essendo ricco, si è fatto povero per amor vostro,
affinché, mediante la sua povertà, voi poteste diventar ricchi".
RESO INFERIORE A DIO?
Qui,
però, dobbiamo fare una pausa per esaminare un uso diverso che alcuni
fanno dei testi paolini che abbiamo citato prima. In Filippesi 2:7 nella
parafrasi di prima "si spogliò di tutti i Suoi privilegi" oppure
secondo altre traduzioni "si privò di ogni reputazio-ne" oppure
"annichilì sé stesso", come nelle versioni italiane Diodati e Riveduta o
"spogliò sé stesso" della Nuova Riveduta vuol dire letteralmente "si
svuotò". Questa espressione, si chiede, accanto all'affermazione di II
Corinzi 8:9, secondo cui Gesù "si è fatto povero", non getta forse un
po' di ombra sulla natura dell'incarnazione stessa? Non implica che, nel
Suo farsi uomo, era compresa una certa diminuzione della deità del
Figlio?
Questa
è la cosiddetta "teoria della kénosis"; kénosis è un termine greco, che
significa "svuotamento". L'idea che sta dietro questa teoria in tutte
le sue forme è che, per poter essere completamente umano, il Figlio
dovette rinunciare ad alcune delle Sue qualità divine, altrimenti non
avrebbe potuto partecipare all'esperienza di essere limitato nello
spazio, nel tempo, nella conoscenza e nella consapevolezza, il che è
essenziale per una vita veramente umana.
La teoria è stata formulata in modi diversi.
Alcuni
hanno asserito che il Figlio si spogliò soltanto dei Suoi attributi
"metafisici" (onnipotenza, onnipresenza, onniscienza), conservando
quelli "morali" (giustizia, santità, veracità, amore).
Altri
hanno sostenuto che, nel farsi uomo, Egli rinunciò a tutti i suoi
poteri specificamente divini e anche alla Sua autocoscienza divina (che,
poi, ri-acquisì nel corso della Sua esistenza terrena).
In
Inghilterra, chi per primo accennò alla "teoria della kénosis" fu il
vescovo Gore nel 1889, ma la "teoria della kénosis" non durerà. Prima di
tutto, perché è una speculazione alla quale i testi presi a sostegno
non sono sufficienti a supportarla: quando Paolo parla del Figlio che
spogliò Sé stesso e si fece povero, risulta dal contesto che si tratta
di una deposizione, ma non dei poteri e degli attributi divini, bensì
della gloria e della dignità divine, "la gloria che avevo presso di te
prima che il mondo esistesse" - dirà Gesù nella famosa “preghiera
sacerdotale” in Giovanni 17:5. Le versioni di Filippesi 2:7 che figurano
in varie traduzioni sono quindi interpretazioni corrette del pensiero
di Paolo e non c'è appoggio scritturale all'idea del Figlio che rinuncia
a un qualche aspetto della Sua deità.
Il
Nuovo Testamento è chiaro ed enfatico nel sottolineare l'onnipotenza,
l'onnipresenza e l'onniscienza del Cristo risorto (Matteo 28:18,20;
Giovanni 21:17; Efesini 4:10).
Inoltre,
Cristo dichiarò in termini esaurienti e categorici che tutto il Suo
insegnamento era da Dio, e che Egli era il messaggero di Suo Padre. "La
mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato... Dico queste
cose come il Padre mi ha insegnato... Io non ho parlato di mio; ma il
Padre, che mi ha mandato, mi ha comandato Lui quello che devo dire... Le
cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me"
(Giovanni 7:16; 8:28; 12:49,50).
È
vero anche che la conoscenza di Gesù delle cose umane e divine era
talvolta limitata, infatti in alcune occasioni Egli chiese delle
informazioni del tipo "Chi mi ha toccato le vesti?... Quanti pani
avete?" (Marco 5:30; 6:38) e dichiarò d'ignorare, alla pari degli
angeli, il giorno stabilito per il Suo ritorno (Marco 13:32). Ma in
altre circostanze mani-festò una conoscenza soprannaturale. Egli
conosceva il torbido passato della donna samaritana (Giovanni 4:17e
seguenti). Sapeva che quando Pietro sarebbe andato a pescare, il primo
pesce catturato avrebbe avuto una moneta in bocca (Matteo 17:27). Sapeva
pure, senza che nessuno Lo avesse informato, che Lazzaro era morto
(Giovanni 11:11-13). Similmente, di tanto in tanto mostrò di possedere
una potenza soprannatura-le operando miracoli di guarigione, sfamando le
folle, risuscitando i morti.
L'impressione
che gli Evangeli dànno di Gesù non è che Egli fosse interamente spoglio
di conoscenza e di potenza divine, ma piuttosto che attingesse da
entrambe in maniera saltuaria, accontentandosi di non farlo per gran
parte del tempo. In altri termini, l'impressione che se ne ricava è, non
tanto quella di una deità ridotta, quanto piuttosto di capacità divine
volutamente non usate.
Come
considerare questo "contenersi" di Gesù? Certamente, nei termini della
verità a cui l'Evangelo di Giovanni dà molta importanza: la completa
sottomissione del Figlio alla volontà del Padre. Sappiamo bene che negli
Evangeli il Figlio appare come una persona divina non indipendente, ma
dipendente, una persona che pensa e agisce soltanto e interamente
secondo le direttive del Padre. "Il Figlio non può da sé stesso far cosa
alcuna... Io non posso far nulla da me stesso" (Giovanni 5:19 e 30),
"Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di
Colui che mi ha mandato" (Giovanni 6:38), "Non faccio nulla da me...
faccio sempre le cose che Gli piacciono" (Giovanni 8:28,29).
EGLI SI È FATTO POVERO
Ora capiamo che cosa volle dire per il Figlio di Dio spogliare Sé stesso e farsi povero.
Significò
accantonamento della gloria (la vera "kénosis"); volontaria limitazione
di potenza; accettazione di privazioni, isolamento, maltrattamenti,
astio e incomprensioni; e, da ultimo, una morte che comportava
un'angoscia - più spirituale che fisica - tale che la sua mente, al solo
pensiero, ne era quasi sopraffatta (vedi Luca 12:50 e il racconto del
Getsemani).
Significò
amore fino all'estremo per uomini per nulla amabili, affinché,
“mediante la sua povertà, [essi potessero] diventar ricchi”. Il
messaggio del Natale è che c'è speranza per un'umanità rovinata - una
speranza di perdono, di pace con Dio, di gloria - perché, secondo la
volontà del Padre, Gesù Cristo si fece povero e nacque in una stalla,
per essere appeso a una croce trent'anni dopo.
È il messaggio più meraviglioso che il mondo abbia mai udito, o mai udrà.
Noi
parliamo con facilità dello "spirito del Natale", raramente intendendo
qualcosa di più di una letizia sentimentale a livello familiare. Ma ciò
che abbiamo detto mette in chiaro che la suddetta espressione dovrebbe
in realtà convogliare una straordinaria densità di significato. Dovrebbe
voler dire la riproduzione, all'interno di vite umane, del carattere di
Colui che, per amor nostro, si fece povero in quel primo Natale. E lo
spirito stesso del Natale dovrebbe essere il segno di ogni cristiano,
tutto l'anno.
Lo
spirito del Natale è lo spirito di quelli che, come il loro Maestro,
vivono la loro intera esistenza sul principio di farsi poveri - di
spendere e di essere spesi - per arricchire i loro simili, dando tempo,
fatiche, cure e interessamento, per fare del bene agli altri - e non
soltanto agli amici - in qualunque modo si renda necessario.
Tratto da:
Conoscendo DIO - dispensa n° 5
http://vocechegrida.ning.com/profiles/blogs/il-mistero-piu-grande
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